Batterie al sodio: pro e contro
Alla scoperta di una delle tecnologie che promettono di rivoluzionare i viaggi in elettrico. Ecco come funzionano, quali sono le differenze rispetto alle batterie al sale e i vantaggi nei confronti delle più diffuse batterie al litio
di Federica Musto
Si è sentito molto parlare negli ultimi mesi elle famigerate batterie al sale con articoli, video e anche qualche trasmissione televisiva. Ma quanto c’è di vero e soprattutto, di cosa si stratta esattamente? Prima di tutto occorre fare un doveroso distinguo: batterie al sale e batterie al sodio non sono la stessa cosa. Da una parte ci sono le batterie al sale fuso, o sodio-metallo, una tecnologia certamente interessante ma che conta più di quattro decenni di vita e che ancora oggi presenta una serie di caratteristiche che ne rendono difficoltoso l’utilizzo in ambito automotive. Dall’altra, le batterie agli ioni di sodio, ovvero una batteria strutturalmente simile alle più diffuse batterie agli ioni di litio ma che utilizza gli ioni di sodio al posto di quelli di litio per il passaggio dell’energia nel processo di carica e scarica. Dunque due tecnologie profondamente differenti sia nelle caratteristiche sia negli utilizzi, ma accomunate dal medesimo obiettivo: utilizzare materiali facilmente reperibili e riciclabili in maniera da rendere la filiera dello storage più semplice ed economica. In particolar modo in vista dell’enorme – e in costante crescita – richiesta di stoccaggio dell’energia prodotta tramite fonti rinnovabili non programmabili.
Batterie al cloruro di sodio e metallo
Le SMC, ovvero le batterie al cloruro di sodio e metallo, sono state brevettate in una delle loro prime versioni nel 1978 dal ricercatore sudafricano Johan Coetzer e battezzate batterie ZEBRA, ossia Zeolite Battery Research Africa. Nate con l’obiettivo di sviluppare un sistema di storage che permettesse di immagazzinare energia rinnovabile in maniera sostenibile, sono state studiate e perfezionate nei decenni, e ancora oggi vengono prodotte da diverse aziende, più o meno longeve. Sebbene la produzione sia avvenuta per lo più sempre in direzione di uno storage al servizio di impianti per la produzione di energia rinnovabile, non sono mancati nel tempo anche alcuni esempi di applicazione di piccola scala su alcuni veicoli, come quelli ad opera della svizzera FAAM, poi divenuta Mes-Dea, e oggi nota come FZSonik su una serie di autobus elettrici. Ma come funzionano le batterie SMC? Si tratta di celle con un catodo metallico – generalmente in nichel – e un anodo di sodio disciolto, separati da una membrana ceramica che allo stato solido
è composta di ß-allumina, utile al passaggio degli ioni ma non degli elettroni, i quali invece fluiscono nelle fasi di carica e scarica tramite un circuito elettrico esterno.
Il tutto è racchiuso in un involucro di acciaio. Questo genere di accumulatore è quindi composto da una serie di celle racchiuse all’interno di diversi strati di isolante, fondamentali per il mantenimento termico della batteria. Le batterie al sale disciolto, infatti, per funzionare devono mantenersi tra i 250° e i 270° costanti: questa temperatura permette al cloruro di sodio di restare fuso, il che comporta una serie limiti strutturali che ne hanno decretato il limitato successo negli oltre 40 anni di vita della tecnologia. Sebbene, infatti, tali accumulatori godano di un elevato livello di sicurezza, utilizzino materiali semplici da reperire e da riciclare e abbiano un numero di cicli vita sostanzialmente paragonabili a quelli delle batterie litio ferro (LFP), la necessità di mantenere la temperatura interna delle celle superiore ai 250° causa un costante ed elevato dispendio energetico intrinseco, oltre che un limite al loro utilizzo per tutte quelle applicazioni che non presuppongono costanza.
Si prenda l’esempio di un veicolo carico lasciato parcheggiato per qualche giorno. Il costante lavoro di mantenimento della temperatura elevata all’interno della batteria comporterà un alto fattore di auto scarica, che la porterà a consumare circa un 30% della propria carica solo per mantenersi in temperatura. Qualora poi la batteria dovesse scaricarsi completamente, inizierà a raffreddarsi, comportando il solidificarsi del cloruro di sodio. In questo caso, perché la batteria possa tornare operativa, sarà necessaria una fase di carica della durata di diverse ore solo per ristabilire la condizione termica ottimale.
Un altro limite che ha notevolmente ostacolato l’impiego nel settore automotive è dato dalla limitata performance per elevate correnti di carica e scarica. L’architettura isolante utile al mantenimento del calore interno, infatti, potrebbe causare un surriscaldamento nel momento in cui all’accumulatore venisse richiesta una elevata potenza in uscita o in ingresso, in quanto non sarebbe possibile la fuoriuscita del calore in eccesso. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, sebbene i materiali di cui sono composte siano facilmente reperibili e dunque potenzialmente più economici rispetto a quelli impiegati nelle batterie al litio, i limiti sopra elencati hanno fatto sì che tale tecnologia non riuscisse mai realmente a decollare e dunque che non si venisse a creare una vera e proprio filiera di produzione. Ciò comporta, oggi, un elevato costo di realizzazione che rende le batterie al sale disciolto paradossalmente antieconomiche rispetto alle cugine al litio.
A questo link l’articolo completo pubblicato su E-Ricarica di ottobre